mercoledì 20 gennaio 2016

Antonio Polosa: Non solo Gheler

Ho conosciuto Antonio Polosa nell'estate del 2015, mentre tra i vicoli del suo paese cercava lettori che si caricassero dell’onore, piacere e responsabilità di custodire le sue opere.
Avevo sentito parlare di lui e dei suoi libri da un amico in comune, ma covavo un non giustificato scetticismo nei confronti di un così giovane autore, proveniente per giunta da un paese non molto lontano dal mio.
Poi mi sono trovata dinanzi all'originale esposizione dei suoi libri a bordo di una vespa, lo sguardo attirato dall'illustrazione della copertina di quello che poi ho scoperto essere il secondo libro della saga.
Dopo una serie di battute sul nostro essere appassionati lettori, intrappolati in una spirale fantasy, acquisto “Gheler, l’esploratore – Il legame dei draghi”.
Dire che mi sono dovuta ricredere, è dire poco: trovate qui la mia recensione del libro.

In attesa di leggere anche il seguito della saga, mi sono imbattuta nei suoi racconti: e scopro che Antonio non è solo il creatore di Gheler e delle sue avventure.

Antonio, innanzitutto benvenuto ne “Lo Scaffale delle Swappine”.
- Grazie a te per l'invito! Mi metto comodo, faccio come se fossi nel mio blog.

Saltiamo i convenevoli: hai già risposto molte volte a domande del tipo “cosa fai nella tua vita, oltre a scrivere?”, “come e quando hai iniziato a scrivere?”, “chi sono gli autori a cui ti ispiri?”. 

Ti ho conosciuto con (e come) Gheler, ma poi ho scoperto un’altra parte della tua arte: i racconti.
Come e perché sono usciti fuori dalla tua piuma?
- Vero, però ultimamente le cose sono un po' cambiate. Adesso studio lettere, tanto per fare qualcosa che non sia soltanto scrivere! Comunque, a dire il vero di racconti ne ho sempre scritti. Inizialmente li “utilizzavo” (che brutta parola) come intermezzo, facevano da pausa tra un libro e un altro, sostanzialmente, quindi racconti legati al mondo di Gheler l'esploratore. Come per Eslivio, saranno anch'essi presenti alla fine dei prossimi volumi. Finché, un anno fa, terminata di scrivere la saga, sono andato in cerca di altri temi.

Il primo (in ordine cronologico) si intitola “How i feel when i am without you”. Lo si potrebbe definire più un “fumetto breve” che un racconto. Come mai hai scelto questa nuova forma narrativa per dare forma ai tuoi pensieri?
- Sì, ehm. Prima ancora di scrivere, disegnavo. Amo l'arte in tutte le sue forme, e il disegno è quella che prediligo (dopo la scrittura, ovviamente). Il problema, però, è che pur impegnandomi, pur disegnando in modo abbastanza mediocre rispetto alla maggior parte delle persone che come me non hanno frequentato corsi o scuole, il risultato finale è sempre deludente. Con l'avvento del disegno 3D e digitale, poi, ho abbandonato completamente la pratica, quella che ti fa sporcare le mani, e questo è il motivo principale per il quale non migliorerò mai nel disegno. Ma nonostante tutto, quando l'ispirazione arriva, non c'è bassa autostima che regga. Mi getto a capofitto in quell'idea e la realizzo. Ecco tutto. 

I tuoi disegni prendono il posto delle parole, e sono di grande impatto: riescono ad trasmettere l’intenso e lacerante sentimento di appartenenza (a mio parere, molto più potente del “semplice” amore). Ci ho visto bene?
- Penso di sì. È a tutti gli effetti una denuncia contro quell'amore possessivo, che non fa altro che nuocere a entrambe le parti. Ma è anche un invito a provarlo, quel sentimento, perché prima arriviamo a comprenderlo e prima ce ne possiamo liberare. Credo.

La cover di questo fumetto breve la troviamo anche nella tua prima lettera d’amore (prima in assoluto), destinata alla Scrittura, la tua Strega capricciosa (citando il compositore Giovanni Allevi). Hai qualcosa da confessare ai tuoi lettori, ai lettori di Gheler?
- Quel disegno in realtà ha un significato diverso. Era estate, faceva un caldo davvero esagerato, e quando fa caldo io smetto di mangiare, non ci riesco, mi passa la fame. Così come quando sono in ansia per qualcosa o semplicemente depresso. Ebbene, in quei giorni di luglio le tre cose coincidevano. Ero in ansia per la prima presentazione de L'isola di Eben; ero depresso da un blocco (non riuscivo a scrivere assolutamente niente) e, come ho già detto, si moriva di caldo. In pochi giorni mi sono ridotto a uno scheletro e più mi guardavo allo specchio, più quell'insieme di banalità mi deprimeva. Finché ho deciso di combattere il fuoco con il fuoco. In che modo? Disegnato me stesso, la mia condizione, e vedermi esternamente in quelle pietose condizioni, mi ha aiutato. Quella prima bozza mi ha ispirato, quindi ho passato 3 giorni interi a disegnare, creando quel breve fumetto che hai visto. Fumetto per gli altri; per me, al contrario, è stata una vera e propria terapia. Che poi definirlo fumetto, in realtà, è un'offesa ai fumetti! Diciamo che si tratta più che altro di un insieme di brutti disegni.

A proposito di questa lettera, le tue parole hanno suscitato in me delle sensazioni contrastanti: malinconia, paura, disillusione, ma anche amore e quel sentimento di appartenenza di cui parlavamo prima. Cosa ti ha portato a scriverla, ma soprattutto a condividerla con i tuoi lettori?
Come ogni cosa, tutto parte dall'ispirazione, da un momento di bisogno; il bisogno di condividere. E dalla sofferenza che provo a un anno dall'aver concluso la saga di Gheler. Sento una mancanza peggiore di tutte le altre mancanze da me provate; ed è questa mancanza che mi ha spinto a dedicare una lettera d'amore alla scrittura, a quei libri che mi sono figli e genitori; alla fine di un viaggio.

Andando avanti, troviamo altri 4 racconti: una fiaba, un incubo, un racconto distopico e uno il cui tema è la guerra. Quale è il tuo preferito?
- Difficile dirlo. Anzi, impossibile. È come chiedere a un genitore quale dei suoi quattro figli preferisce! Ma se proprio non posso sottrarmi a questo giudizio, direi Alba. Perché è stato il primo che ho scritto (esterno alla saga) e perché ho avuto modo di sentire il parere di molte altre persone, persone che sono state capaci di mostrarmi aspetti del racconto di cui io non ero consapevole. Ed è sempre bello, secondo me, quando questo accade. Quando sono gli altri, piuttosto che l'autore stesso durante una riscrittura, ad aggiungere qualcosa, qualcosa come un valore, un colore o una sfumatura piuttosto che un nuovo concetto. 

Sul gradino più alto del mio podio c’è “Fa’ ciò che vuoi”: ho adorato il modo in cui condividi con il lettore quelli che tu definisci “i tuoi incubi peggiori”, il modo in cui mi sono illusa entrando in Fantàsia e lo strappo con cui riporti tutti con i piedi per terra. Per non parlare della forma narrativa scelta: poeticamente scarna, diretta e colloquiale. Puoi raccontarci il “dietro le quinte” di questo scritto?
- Di solito leggo prima di andare a dormire. E quella notte leggevo l'ultimo capitolo de La storia infinita, di Michael Ende. E quella stessa notte ci ho fatto un incubo sopra. Non era certo la prima volta che mi capitava, diciamo che la mia mente è parecchio influenzabile quando ha più o meno sonno. Dunque, dicevo, di sogni orribili ne faccio tanti, ogni notte. Allora ho pensato: perché non farci una raccolta? Perché non scriverli tutti? L'idea mi piaceva un sacco e mi piace ancora oggi, l'unico problema è che, dannazione, quando mi sveglio di colpo poi torno a dormire, e quando mi risveglio, la mattina dopo, ne ho già dimenticato buona parte. Con “Fa' ciò che vuoi” invece è stato diverso. L'incubo ispirato da Ende mi ha davvero segnato, lo ricordo ancora adesso, non riesco proprio a esorcizzarlo. Lo stile narrativo, al contrario, non è propriamente mio. Chi mi legge da un po' sa che di solito non scrivo in quel modo, è stato più che altro un mio tentativo, probabilmente vano, di rendere omaggio a un altro libro che ho amato in quel periodo, e che amo ancora oggi: Il giovane Holden, di J. D. Salinger.

La tua ultima creatura, “Alba”, merita una menzione speciale: la bambina del ripostiglio ha fatto un salto dalla bidimensionalità della carta alla tridimensionalità del cortometraggio. Di chi è stata l’idea di dare un volto ad Alba?
- Sì, è stata una sorpresa anche per me. Non ho scritto il racconto pensando a una futura trasposizione, (Al contrario che con tutto il resto: tendo sempre a immaginare visivamente quello che scrivo) per questo mi è stato piuttosto difficile trasportarlo dal pensiero agli occhi, da racconto a sceneggiatura. Tuttavia sono piuttosto soddisfatto del risultato, e devo ringraziare anche il mio “Socio” per questo, Enzo Petrucci, nonché regista e direttore della fotografia, nonché(2) fondatore del suo piccolo antro cinematografico, la OZNE production. Enzo ed io viviamo nello stesso paese, semplicemente una volta ci siamo incontrati, abbiamo discusso, lui poi ha letto il mio racconto, Alba, e mi ha detto: Cavolo, mentre lo leggevo riuscivo già a immaginarmi le scene. Tutto il cortometraggio è frutto di idee condivise e di collaborazioni esterne, e per noi è stata una sorta di prima prova. Dopo Alba, infatti, abbiamo intenzione di proseguire, di sperimentare ancora e ancora.

Dove è stato girato il corto, e cosa vi ha spinti a scegliere questa location?
 - Borgo Taccone è una frazione quasi totalmente abbandonata del comune di Irsina (Basilicata, per intenderci) ed è stato costruito negli anni 50 in seguito alla riforma agraria. Presenta infatti sia caratteristiche agricole sia amministrative, residenziali.  15 anni dopo però, per un motivo a me non propriamente chiaro, la maggior parte degli abitanti è migrato altrove, e il borgo è caduto vittima di un decadimento progressivo che lo ha trasformato in un vero e proprio set cinematografico per film di guerra, post-apocalittici e quant'altro. Per questo, prima ancora di assegnare i ruoli, abbiamo subito pensato a lui come location principale.







Silvia De Felice e Eva Immediato: indiscutibilmente protagoniste del corto, perché la vostra scelta è ricaduta su di loro?
- Beh, sicuramente non abbiamo organizzato provini e cose del genere, sono state più che altro scelte di necessità. Non conoscevo Silvia ma quando l'ho vista, mi sono detto: è lei, è perfetta per questo ruolo. Inutile dire che ho avuto la mia conferma immediatamente dopo aver girato la prima scena. Per Eva Immediato, al contrario, è stata una scelta ben mirata. Eva ha una voce da brividi, (condivido pienamente n.d.a), un'espressività unica ed è una grande attrice teatrale.  Quando le ho proposto di narrare Alba, ha accettato immediatamente, dimostrando una grande disponibilità e professionalità. Ama quello che fa e lo si nota. E non le importa se lo sta facendo per un grande produttore o per dei semplici ragazzi; lei ci mette sempre il massimo della passione.

E adesso? Puoi deliziarci con qualche anticipazione sui tuoi prossimi impegni?
-  Beh, difficile dirlo. Questa estate uscirà il terzo volume di Gheler l'esploratore, si spera. Inoltre, ho dell'altro materiale (romanzi) da proporre. Sicuramente cercherò di puntare a case editrici un po' più grandi, questa volta (ma non nutro molte speranze). Sicuramente(2) scriverò altri racconti e ancor più sicuramente(3) continuerà il progetto “Short-film”. Il resto è noia e speranza!

Grazie mille per aver dato risposta alle mie curiosità: spero ne siano stati felici anche i nostri e i tuoi lettori.
- Grazie a te! Spero di non essermi dilungato troppo. Di tanto in tanto, comunque, vi leggo anch'io, quindi ne approfitto per farvi i miei complimenti e auguri. A presto!



Vi lascio in compagnia dell’incipit di uno dei suoi racconti:


Viva la morte

Nell'ultima città viva del mondo, esistono due sole realtà; la vita terrestre e il paradiso. Nessun inferno, nessun purgatorio.
La metropolitana era un luogo che Diana odiava. Ovunque, persino nelle gallerie, compariva la frase dei negromanti: "La morte è un nuovo inizio" formata da led bianchi che a intermittenza picchiavano le sue iridi. Persino la voce che annunciava le fermate diceva: "Piazza degli impiccati. Prossima fermata, palazzo degli angeli. Ricorda, la morte è un nuovo inizio!" ma ciò che più Diana odiava erano le persone. Quando vide un ragazzo curvo e vestito di stracci sporchi entrare dalle porte manuali e cigolanti, capì immediatamente ciò che sarebbe accaduto. La donna sospirò e si voltò dal lato opposto, specchiandosi nell'opaco vetro del treno. Nel riflesso però vide anche quell'uomo dall'aspetto trasandato. «La morte è un nuovo inizio...» stava balbettando. «Un nuovo... inizio...» Diana chiuse le palpebre per non guardare.
Quando le riaprì, due minuti dopo, l'uomo aveva smesso di respirare. Nella mano destra reggeva una siringa verde, la stessa nella locandina appesa dietro tutti i sedili della metro. "La morte è verde come la speranza" diceva, "per un nuovo inizio veloce e indolore, compra il Marion dal tuo rivenditore di fiducia, prodotto garantito dalla società dei negromanti".



Dove trovare i suoi racconti? ghelerlesploratore.blogspot.it

-Vicky


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